Tradizioni Tutti i post

I “cestoni”

A pensarci oggi, anche il semplice caricare dei cesti al basto dell’asino doveva essere un’arte raffinata, non da tutti.

Be’, sicuramente a quei tempi non era considerata un’arte, anzi era un’attività da “cafone”, tuttavia non tutti i cafoni potevano permettersi il lusso di avere un asino o un mulo, per trasportare le merci (legna, fieno, uva, ecc.).

Insomma, una volta i mezzi di trasporto per eccellenza erano gli animali, l’asino su tutti. Sulla schiena di quest’ultimo veniva sistemato il basto (gliu ‘mmaste), una sorta di sella alla quale si potevano assemblare diversi contenitori di diversa natura e dimensione, a seconda della merce da trasportare: ceste, botti, reti, ecc. Per motivi di equilibrio e di ripartizione del peso, al basto andavano assemblati sempre due contenitori: uno a destra e uno a sinistra.

In foto, il cesto (gliu cestone) con cui mio nonno (classe 1900) riportava il raccolto a casa, dalla campagna. Sul legno del cesto sono presenti anche le sue iniziali (che ci fa capire il gran valore attribuito a quest’oggetto)!

Sul basto dell’asino erano sempre legati quattro “anelli” di vimini, due a sinistra e due a destra, a cui venivano poi attaccati questi grossi cesti.

Che cosa ci si trasportava?

Io ricordo di aver visto trasportare in questi cesti per lo più il raccolto dell’uva, ma spesso e volentieri si incontravano asini che nei cestoni trasportavano dei bambini piccoli, mentre il resto della famiglia seguiva l’asino a piedi!

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Il ferro delle delizie

Sembravano grosse tenaglie di ferro, strumenti di tortura medievali, eppure quando li vedevo a casa dei miei nonni mi si illuminavano sempre gli occhi e mi veniva una gran voglia di dolci: i ferri per fare le pizzelle!

Le pizzelle sono un dolce tipico abruzzese a base di uova (delle galline di casa) e farina (del mulino tradizionale). Oggi in commercio esistono vari tipi di “ferri” o biscottiere con diversi stampi all’interno, sono più piccoli e certamente più delicati allo sguardo. I ferri di una volta, invece, erano grossi e si scaldavano alla brace del camino.

Il sapore delle pizzelle cotte sulla brace era la fine del mondo!

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La carne dei poveri

In un articolo precedente abbiamo parlato dei contenitori di legno in cui venivano riposti i fagioli una volta scamati (battuti e “sgusciati”); oggi vi parliamo di un altro oggetto legato agli stessi legumi: la pignata!

La dieta di una volta contemplava, per ragioni di approvvigionamento, più proteine vegetali che animali, la carne era un lusso che non tutti potevano permettersi. Sostituti impeccabili della carne furono, per tanto tempo, i fagioli: la carne dei poveri.

Sempre presente accanto al focolare di casa nostra, la pignata era un oggetto di fondamentale importanza in quanto si usava per cucinare, appunto, i fagioli. Veniva messa nel camino, sulla brace.

L’intreccio in ferro che potete vedere nella parte bassa non è soltanto un semplice decoro: serviva per distribuire meglio il calore, quindi per non farla rompere!

Mia madre la metteva sulla brace quasi tutti i giorni, invece ora la nostra pignata si gode il suo meritato riposo nel camino della Masseria!

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A lume di candela

Quando mia madre era una ragazza, la corrente elettrica era ancora un miraggio nel nostro piccolo paese. Le prime, pochissime, case malamente illuminate si iniziarono a vedere dopo il 1945, in seguito alle devastazioni della Seconda Guerra mondiale. Ma intorno agli anni Trenta, quando mia madre era ancora una ragazzina, soltanto una coperta di stelle si adagiava sulle abitazioni buie e silenziose. Anche dell’illuminazione pubblica non ve n’era l’ombra (o meglio, la luce); a volte una lucerna lontana anticipava uno schiamazzo o una risata proveniente dalla stradina di campagna antistante alla masseria. Per il resto, il buio.

Le ragazze, dopo aver terminato i duri lavori in campagna, solevano ricamare la biancheria del proprio corredo sognando il giorno delle nozze, magari nutrendo già dolci sentimenti, ricambiati, per qualche ragazzo del proprio paese: si era poveri, non si possedeva nulla, i matrimoni combinati erano cosa da Signori, per fortuna.

Dalla campagna si tornava sempre tardi, a un palmo dal tramonto, e le serate non duravano molto: un ultimo pasto frugale e poi ci si sedeva su una seggiola per ricamare, prima di coricarsi.

Ma come si faceva ad eseguire un lavoro di precisione al buio?

Compagna fedele delle serate giovanili di mia madre è stata la sua lampada a olio (in foto), che nello scuro della casa riusciva a illuminare soltanto un piccolo lembo di tessuto, quel poco che bastava per eseguire un punto ben fatto. Un lavoro paziente, di concentrazione e precisione.

Gli anni passarono lentamente, il corredo fu ultimato, e tra i ricami e il giorno delle nozze ci fu di mezzo una guerra mondiale e la prigionia del futuro sposo!

Quest’ultimo non solo tornò sano e salvo al paese, ma decise che era giunto il momento di una svolta: mettere la corrente elettrica a casa!

Si sposarono, misero su una famiglia anche piuttosto numerosa e la lampada a olio non servì più, fu dimenticata; ma la fiamma che ardeva durante le serate di ricamo, nella lampada e nel petto di mia madre, è riuscita a imprimere un disegno stupendo, che non si sgualcì mai e che ci ha accompagnato per tutta la vita.

Quella lampada la custodiamo gelosamente nella nostra Masseria.

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Alla ricerca del ricordo perduto

I miei ricordi di bambina li contemplano appesi su una parete, tutto qua.

Somigliavano ai tamburelli, ma erano più grandi e massicci. Per molto tempo non mi riuscii di capire il loro uso; mio nonno già non li utilizzava più.

Un giorno però mi tornò alla mente, dai suoi angoli più remoti, un ritmo incalzante e sostenuto, tum tum tum, e poi ancora tum tum tum… Pian piano il ricordo iniziò ad affiorare, nitido: la battitura dei fagioli!

Dopo la raccolta, i fagioli venivano battuti per eliminare i baccelli, che venivano scartati, mentre la parte interna del legume, scamata (ossia battuta e ripulita), si riponeva in contenitori tondi di legno (come quelli di mio nonno che vedete in foto). L’ultimo passo verso la pulitura definitiva era quello di sedersi su una vecchia seggiola impagliata davanti a uno di questi contenitori pieni di fagioli, per poterli ripulire uno ad uno.

Dalla foto possiamo notare quanto fossero importanti questi contenitori per mio nonno: al centro di ognuno di loro ci sono impresse le sue iniziali.

Dopo almeno 60 anni passati ad essere cibo per tarli, dimenticati e appesi a una parete in ombra, finalmente li abbiamo risistemati e messi in bella vista nella nostra Masseria!

Volete sapere anche come venivano cucinati i fagioli una volta? Clicca qui!

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